Scrivo dalla Spagna, al freddo, all’inizio di una nuova avventura, ancora una volta come straniero e subito, per contrasto, mi viene in mente il caldo sole che mi ha accolto in Colombia. In realtà, i primi giorni sono stati i più difficili. Arrivato un giovedì sera, la scuola l’ho vista prima silenziosa. Un paradiso terreste -se non sei uno studente- che aspettava di accogliere i ragazzi e che sarebbe stata la mia casa per 6 settimane. Dalla mattina seguente, con un tentennante spagnolo, ho provato a lanciarmi il più possibile, trovando altre forme di comunicazione, a partire dallo sport, grazie alle quali subito i ragazzi hanno cercato di farmi sentire accolto. Tuttavia, suonata la campanella, la scuola è tornata come la sera prima, un meraviglioso angolo di Cartago protetto da cancelli e filo spinato, barriere che non mi impedivano però di vedere il quartiere Bellavista, uno dei più poveri e problematici della città. La sera prima non ci avevo fatto molto caso, ma, rigorosamente accompagnato dalle suore, la mattina stessa siamo andati a fare una visita.
Io non ero pronto a vedere la casa di Cristina. Uso la parola casa solo per la dignità di questa mamma che durante la pandemia, si era messa a costruire, con il fratello, una casa per loro, la nonna e la bambina che in quel momento era ancora a scuola. Nonostante i loro sforzi, poiché quella è zona di invasione (quindi ognuno costruisce come e dove può), il terreno non ha retto e la casa è pericolosamente incrinata. E’ difficile descrivere a parole: bisogna camminare sulle assi che si piegano e gemono al passaggio, con la costante sensazione che sia la casa stessa a cadere e poi pensare di viverci tutti i giorni. Cristina era fiera della sua casa e ha solo chiesto alle suore che la aiutassero con un piccolo muricciolo in cemento, ma era evidentemente stanca e provata. Seduta cucendo sul divano, tutta la famiglia stava aggrappata alla nonna, che con il suo fare allegro sembrava davvero tenere alti non so il morale, ma anche le pareti stesse.
Dopo quest’avvio intenso, sono calati due giorni di silenzio quasi completo. In questi giorni guardavo da lontano le povere case ammassate e mi sentivo inutile, completamente impotente di fronte a un mondo più grande di me. Non mi ero reso conto di quanto fosse dentro di me l’idea di dover partire per cambiare il mondo, ma in quel momento mi è parso evidente ed era altrettanto chiaro che non ci sarei riuscito, per lo meno, non come sognavo.
Nei mesi successivi mi sono accorto che più che tutto il resto del mondo sono cambiato io. Il grande rischio di vivere fuori dal paese natale è vedere i propri punti fissi traballare, in maniera particolare perché ero circondato da gente coinvolgente quanto i Colombiani, che mi hanno sempre aperto le loro case, ricche o povere che fossero, lasciandomi entrare nelle loro vite e condividendone un pezzo. Ognuna delle loro storie meriterebbe di essere raccontata, ma già adesso i nomi e i volti di questi rapidi incontri sfuggono alla memoria e allora mi chiedo cosa mi rimarrà di loro e cosa a loro di me. Alla prima parte ho già risposto, ogni persona in Colombia mi ha aiutato a crescere e conservo gelosamente le loro storie nei diari di quei giorni. Allo stesso modo penso però che il cambiamento non è mai unico. Ogni volta che i ragazzi si aprivano a giocare con me, ascoltavano le mie noiose lezioni, mi insegnavano un ballo, un gioco, uno scioglilingua, stavamo costruendo qualcosa di diverso, un mondo un po’ più incline ad accogliere lo straniero. In fondo io gli ho portato una visione diversa, una realtà lontana, in cui certe dinamiche che attagliano questo posto non sono considerate normali, in modo che almeno sappiano che esiste un altro modo e magari gli venga voglia di viverlo. Questo ho provato a dire ai ragazzi gli ultimi giorni di permanenza, che un caso fortuito ha voluto coincidessero con la settimana della pace: Sois semilleros de paz (State seminando la pace), perché la vera pace è questa accoglienza e confronto tra culture.
Il mio viaggio però ancora doveva terminare. L’ultima settimana l’ho passata tra Villavicencio e Bogotà. Qui ho avuto l’occasione di conoscere diversi ragazzi della mia età e, con un po’ di sensi di colpa, ho scoperto di avere il grande dono di poter vivere i miei 20 anni, “la gioventù”, studiando e viaggiando, mentre molti di loro non possono. Alcuni di loro non vivono neanche l’adolescenza o l’infanzia, perché soprattutto tra le fasce povere si deve diventare adulti in fretta e uscendo da scuola (16/18 anni) i ragazzi spesso si trovano ad affrontare una vita per la quale non sono pronti, perdendosi in tanti modi.
Dentro di me urlano le storie non scritte, ma spesso mi chiedono cosa mi manca di più della Colombia e racconto una di queste storie, perché sì, è difficile lasciare il patacón, il cholado… però alla fine sono le persone e i loro modi di vivere che mi rimarranno dentro, un’allegria contagiosa che accende questa terra latina e non fa dimenticare i problemi, ma aiuta a convivervi.